Nella web serie “Quello che vedo” Maurizio Casagrande compare fisicamente e di corsa per pochi secondi nei panni di un ingegnere al ritorno dal footing, nella canonica scena della portiera che gli consegna la posta, ma la sua impronta di fatti si respira in ogni sequenza e non solo perché firma la regia dei sei episodi, ma perché quella sua caratteristica di leggerezza ed ironia traspare battuta dopo battuta, coinvolgendo in pieno il pubblico presente alla premiere a Neapolisanit. Appena ha fatto il suo ingresso tra la penombra della sala è stato infatti accolto da un calorosissimo applauso che l’attore regista partenopeo ha ricambiato con altrettanto affetto a fine proiezione lasciandosi ad un lungo abbraccio con tutti tra gli immancabili selfie.
E nella nostra intervista, Casagrande nel raccontare come è nata quest’esperienza parte proprio dalla sua scelta di fare “la comparsa” in “Quello che vedo” “poiché –sottolinea il regista- è bello guardare una cosa e poterla valutare, giudicare in maniera fredda, distaccata, discreta, senza il diretto coinvolgimento da attore, ma soltanto per come messa in scena e per come è stata realizzata”.
Una doppia sperimentazione se vogliamo, considerato che per la prima volta si cimentava anche nella regia e storytelling per il web.
“Si in effetti questa è la mia prima esperienza come regista web e di conseguenza anche di racconto seriale. Un mezzo ed una tipologia di esposizione che meglio, rispetto ai media tradizionali, credo, riescono a far comprendere un argomento complesso come il disturbo dello spettro autistico. Sicuramente in maniera più immediata ed efficace. Quello che cioè i ragazzi hanno immaginato e che io ho pensato”.
Perché avete scelto di calarvi proprio nella vita vera, quotidiana, di un ragazzo autistico?
“L’aspetto più positivo di questo lavoro ritengo che sia proprio il fatto che si parli in primo luogo di un problema come questo, un grande problema, molte volte misconosciuto e raccontato in maniera molto approssimativa, rocambolesca, in cui si mischiano le cose. Alcuni operatori, proprio qui al Neapolisanit, mi dicevano come in un certo senso non cogliesse l’essenza dell’universo autistico un film di grande successo e tra i primi a parlare di autismo come “Rain man”, in cui il suo protagonista viene raccontato quasi come un super eroe. Una persona speciale, quasi bellissima, tanto da farci sperare che siano tutti “accussì”, ma la realtà sappiamo è ben più diversa e complessa e complicata. Da qui la volontà di raccontare l’autismo dal versante di chi vive con queste persone e che quindi lo subisce, talvolta in maniera anche drammatica, perché più consapevole di chi ne è affetto”.
Non a caso, per rendere più marcato il senso del disagio comunitario avete scelto un bambino chiamato a raccontare appunto solo quello che vede, a cominciare da questo fratello più grande ed autistico e con tutti i problemi ed i conflitti che ne derivano per entrambi.
“Si in effetti, il bello di questa fiction sta proprio nel fatto che tutto ciò viene visto attraverso gli occhi di questo fratellino più piccolo (Mirko) a cui la maestra assegna appunto il tema “Quello che vedo” in cui racconta il suo universo familiare in cui questo fratello maggiore venticinquenne ed autistico (Filippo) viene premurosamente e pazientemente circondato da attenzione ed affetto e lui chiamato invece a vestire i panni dell’adulto, sovente costretto a passare in secondo piano. Insomma i ruoli sono saldamente invertiti. Uno spaccato di vita reale per chi in famiglia ha questo tipo di problema su cui la fiction ha giocato molto per evidenziarne tutto il disagio e le difficoltà. Come è grande la difficoltà di far conoscere nella sua essenza l’autismo che è anche, se non soprattutto un problema di comunicazione, della grande difficoltà cioè di stabilire un contatto, un dialogo. Per questo nessuno meglio di un bambino poteva raccontare questa realtà”.
Una realtà che per rendere quanto più vera e credibile vi ha imposto di immedesimarvi a tal punto nel ruolo da decidere di frequentare per un certo periodo il centro di riabilitazione Neapolisanit di Ottaviano, di vivere cioè gomito a gomito con i ragazzi autistici, gli operatori, i medici e gli specialisti.
“Non potevamo esimerci dall’affrontare un tema delicato come questo senza immergerci in una realtà così complessa, per questo, io per primo, abbiamo dovuto confrontarci direttamente con lo spettro autistico, le sue dinamiche, i trattamenti. Non farlo, significava esporsi al rischio elevato di trasmettere informazioni inesatte”.
Questo contatto reale, concreto, alla fine ha contribuito al racconto di una storia vera, che però si mantiene sempre delicata, con una sua leggerezza, che cade come una pennellata nella quotidianità.
Esatto. Questo è. L’autismo è infatti un problema che si innesta nella vita quotidiana, per questo la web serie è interessante, perché la vicenda di Filippo non è raccontata come un’isola a se stante , ma parla della vita quotidiana di chi ha in famiglia, tra gli amici, i vicini, un caso del genere, e di conseguenza tutto quello che accade, alle volte, sia drammaticamente normalissimo. E per questo penso che raccontare tutto ciò sia fondamentale, perché si racconta la verità”.
Nelle sue parole e nei suoi occhi traspare la soddisfazione di aver realizzato qualcosa per gli altri, per chi soffre, per chi spesso non ha voce e di conseguenza si chiude nell’ isolamento del proprio dramma. Eppure non è stato facile trovare lungo la strada chi condividesse il suo intento e quello di autori ed attori, che è bene ricordare, avete svolto azione sociale e di solidarietà vera, cioè in maniera gratuita.
“Nonostante le grandissime difficoltà e nonostante inizialmente alcune istituzioni, poi venute meno, avrebbero dovuto finanziare il progetto, quindi strada facendo con disponibilità economiche prossime allo zero, non mi sono dato per vinto ed avendo sempre creduto nel progetto l’ho portato tenacemente avanti, con l’obiettivo primario di fare un prodotto di qualità, tant’è che siamo riusciti a girare cinquanta minuti di finction in appena sette giorni, una follia, ma ripeto senza derogare alla qualità produttiva. Il ché è la dimostrazione che la volontà di credere, di voler fare qualcosa invece che chiacchiere, come spesso accade, porta poi sicuramente a risultati concreti. Insomma con entusiasmo, professionalità, tenacia e convinzione si possono raggiungere mete apparentemente impossibili”.